Un’altra Giornata lontana dall’obiettivo.
Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999, si chiama proprio così: Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un obiettivo, l’eliminazione, che resta ancora molto, troppo lontano per qualsiasi paese al mondo che si definisca civile. A dirlo sono le cronache delle violenze e dei femminicidi, pressoché quotidiane. E soprattutto ce lo dicono i numeri: in Italia, secondo l’Istat, tra marzo e giugno 2020 le richieste di aiuto al numero verde 1522 sono aumentate del 119,6% rispetto all’analogo periodo del 2019. Si tratta di 15280 chiamate! Lo stesso è accaduto per i messaggi tramite chat: da 417 dello scorso anno ai 2666 del 2020. In soli 4 mesi.
Complice, certo, la pandemia che ha fatto precipitare situazioni di disagio preesistenti, le ha in qualche modo accelerate, ma quelle condizioni di pericolo per le donne erano e restano quotidiane e non spariranno quando il virus batterà in ritirata.
E attenzione a pensare che le violenze e i femminicidi avvengano soltanto in condizioni di precarietà o disagio economico, basta leggere i media di questi giorni per accorgersi che non è così. O peggio che mai un padre, un fratello, un fidanzato o un compagno di vita eserciterebbero violenza sulle proprie figlie, sorelle o compagne. La maggioranza delle violenze è intrafamiliare e a commetterle sono soprattutto le figure più vicine alle donne. L’83,7% dei maltrattanti aveva le chiavi di casa!
Come si affronta un problema come questo che nel nostro Paese insiste con una allarmante frequenza?
Certamente con un grande impegno che conduca ad una vera rivoluzione culturale, pacifica ma profonda. Che scardini medievali pregiudizi e mentalità secondo i quali una donna deve accettare la volontà, anche se violenta, dell’uomo. E quindi una rivoluzione culturale che sostenga le donne e diffonda l’idea che denunciare è fondamentale per spezzare la spirale di violenza e maltrattamenti nella quale si è finite, prima che sia troppo tardi. Ma questo non basterà se, dinnanzi alla denuncia di una donna, continuerà ad esserci la possibilità che qualcuno, anziché proteggerla, tenti di convincerla che forse la miglior strada non è procedere, ma cercare di ragionare e riappacificarsi con il marito, il compagno o il padre violento. Non basterà se sui media ancora continueremo a leggere, e non solo tra le righe, che in fondo è la donna se “l’è andata a cercare”. E non basterà se ciascuno di noi non guarderà in faccia alla realtà per ciò che è: non vi è nessuna ragione perché una donna debba subire quella che è, a tutti gli effetti, una violazione dei diritti umani. Dobbiamo convincerci che la protezione spetta alla vittima, non al suo carnefice.
E poi c’è il non secondario ruolo della politica che però procede, dinnanzi ad un fenomeno così grave, con lente pastoie burocratiche, discontinuità di interventi, sottovalutazione del fenomeno. La Legge 93/2013 prevedeva un piano di stanziamento di 132 milioni di euro: troppo pochi e troppo lentamente elargiti. È così che i Centri anti violenza, gli unici capaci di rispondere con tempestività ai bisogni delle donne, offrendo loro e spesso anche ai loro figli, protezione e aiuto, entrano in crisi e faticano ad accogliere le richieste e a realizzare progetti nel lungo periodo.
Fondamentale, ancora una volta, è la rete dei servizi, che sia però efficiente sui territori in modo omogeneo e che possa mettere in campo professionalità e competenze idonee. Siamo molto lontani dall’eliminazione della violenza, ma gli assistenti sociali sono determinati a non perdere di vista l’obiettivo, perché solo così potremo consegnare alle nuove generazioni un mondo liberato da paura, sopraffazione, brutalità. Mai più donne oggetto di violenza, perché le donne sono soggetti di diritti e fulcro di una società libera e migliore.