Nadia, sconosciuta, Simona, Rosa, Daniela, Anna, Vincenza, Anastasia, Naima, Carol, Tiziana, Giada, Viviana, Liliana, Romina, Angela, Sonia, Romina, Stefania, Giulia, Noelia, Nevila, Camilla, Jenny, Lidia, Lorena, Renata, Elena, Elisabetta, Donatella, Yang, Li, Martha…
Possiamo scriverli tutti e 104 i nomi delle vittime di femminicidio nel nostro paese nel 2022, fino al 20 novembre.
Possiamo anche aggiungere i nomi dell’anno 2021 o del 2020 e, a ritroso, dal momento in cui abbiamo cominciato a censirli.
E possiamo continuare con i nomi delle più di sei milioni di donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza. Sono il 31,5%. Fisica, in molte situazioni associata a quella sessuale. Più di un milione è stata vittima di stupro o di tentato stupro.
Noi assistenti sociali #parliamodipersone, lo facciamo oggi per ricordare che dietro la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999, ci sono donne, madri, padri, figli e figlie, bambini, fratelli e sorelle, amiche e amici che sopraffatti dal dolore della perdita, da improvvisi ed inaccettabili cambiamenti nelle costellazioni famigliari, dalla fine di desideri, aspirazioni, progetti di vita spesso chiedono a gran voce di celebrare la ricorrenza nel vero spirito della giornata internazionale, quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne.
Sono i giorni, questi, dei mondiali di calcio. Non possiamo dimenticare come si tratti di un paese accusato da più parti di non garantire diritti umani alle donne, oltre che a migranti, omosessuali, bisessuali, transgender.
Amnesty International e Human Rights Watch denunciano che la donna in Qatar è sottoposta a un regime che ne preclude l’autonomia personale e lavorativa, dove quasi tutte le scelte di vita devono essere approvate da mariti, padri, nonni, fratelli, zii.
Sono i giorni delle proteste in Iran dove la violenza e la repressione sono arrivate sui media perché una donna, una ragazza, prima di altre, è stata uccisa. Qatar, Iran sono soltanto due Paesi, ma la lista è molto più lunga e, senza raggiungere quei livelli di negazione di diritti quotidiani, di maltrattamenti, brutalità, soprusi è pieno il mondo.
La violenza ha effetti negativi a breve e a lungo termine, sulla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva della vittima. Dove c’è, assistiamo a isolamento, incapacità di lavorare, limitata capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli. Inoltre, i bambini che assistono all’interno dei nuclei familiari possono soffrire di disturbi emotivi e del comportamento e in generale gli effetti della violenza di genere si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità.
Servizi sociali e sanitari, forze dell’ordine, Centri antiviolenza e Case rifugio rappresentano nodi centrali nei percorsi di presa in carico delle vittime e della prevenzione del fenomeno.
Nel 2021 come azione di contrasto c’è stato un tentativo una misura che prevedeva 625 “Redditi di libertà” per il 2021 per tutta Italia. Ma basta un numero a far capire: nel 2020 le donne che hanno avuto accesso ai centri antiviolenza sono state oltre 20.000. Quante domande non hanno avuto risposta per esaurimento budget?
Sostenere le donne, diffondere l’idea che denunciare è fondamentale, è compito nostro, ma della comunità tutta. Chi sa, deve agire. Chi è vittima, deve ribellarsi. Ma la politica, le forze dell’ordine, i media non devono mai sottovalutare il fenomeno.
L’educazione al rispetto comincia nelle famiglie, cresce nella scuola, si rafforza nella quotidianità. Cultura e risorse perché quell’elenco di nomi non debba allungarsi inesorabilmente. Nessuno si volti da un’altra parte.